di Gabriele Pinosa – GO-SPA CONSULTING SRL
L’affermazione economica di Pechino ha determinato il progressivo spostamento verso Oriente del baricentro globale.
Nel corso del 2020, la Cina è stato l’unico Paese, tra i Big, a conseguire una crescita del PIL (+2.9% y/Y), confermando il suo crescente peso a livello sistemico. A partire però dalla fine dello scorso anno, qualcosa è cambiato nella linea politica dell’establishment dell’Impero di Mezzo.
Nel mese di novembre scorso era infatti previsto il collocamento sui mercati finanziari di Shanghai e Hong Kong di ANT Group. Si tratta di uno dei big fintech cinesi, controllato da Alibaba del miliardario Jack Ma (nella foto).
Il giorno prima dell’avvio dell’operazione, l’Autorità di regolamentazione e vigilanza cinese ha sospeso l’operazione a tempo indeterminato.
E c’è di più: Jack Ma è scomparso per mesi riapparendo solo nel mese di gennaio, in tono sommesso. Il retroscena è cruciale. Il miliardario aveva pubblicamente criticato le leggi che regolano gli istituti di credito cinesi, definiti “arretrate banche di pegni”. Secondo le indiscrezioni, l’ordine di sospendere il collocamento di ANT Group è arrivato dai massimi livelli, forse addirittura dal presidente Xi Jinping. Il messaggio è chiaro: nessuno è al di sopra del PCC (partito comunista cinese) e non c’è un prezzo per questo. Infatti, con il passare dei mesi l’atteggiamento di Pechino si è fatto via via più rigoroso, con il varo di normative stringenti che hanno coinvolto svariati settori.
In primo luogo il Big Tech, per evitare che l’enorme mole di dati generata dai cittadini cinesi, venga gestita da aziende private con scopi commerciali: per Pechino i dati sono infatti la quinta leva della produzione, insieme a terra, lavoro, tecnologia e capitale. Quindi devono appartenere allo Stato.
Ma, oltre a ciò, l’atteggiamento di Pechino è diventato più rigoroso in numerosi altri settori, quali i giochi online e l’educazione.
Si tratta di un cambiamento che tende a modellare le nuove generazioni verso l’apprendimento dei dettami della cultura cinese, marcando le distanze rispetto a quella occidentale. Le nuove normative hanno prodotto un crollo dei valori di Borsa delle aziende dei settori colpiti, in primo luogo il Big Tech: si teme un “fuggi fuggi” da parte degli investitori globali che negli ultimi anni hanno investito copiosamente nelle società cinesi. Il noto finanziere George Soros ha recentemente sostenuto tale teoria, dichiarando: “Chi investe in titoli cinesi rischia un brutto risveglio. Xi Jinping non sa come funzionano i mercati”. Le cose stanno proprio così? Qual è l’origine di questo mutato atteggiamento dell’establishment di Pechino?
Uno degli elementi chiave per capirlo sono le parole pronunciate da Guo Chuquing, presidente del Cbirc (China banking and insurance regulatory commision), nel marzo scorso durante i lavori del Congresso nazionale. Il plenipotenziario cinese ha dichiarato: “Le bolle nei mercati statunitensi ed europei potrebbero scoppiare perché i loro rally si stanno dirigendo nella direzione opposta rispetto alle loro economie reali. Il mercato cinese è ora molto legato a quelli stranieri e il capitale straniero continua ad affluire”. Da queste poche parole si può comprendere la perdita di fiducia dell’establishment cinese verso il modello liberista occidentale, il cui ipermonetarismo è foriero di rischi crescenti, perché alimenta la divergenza tra sistema finanziario ed economia reale. A tale processo, il sistema cinese contrappone una visione diversa. Si tratta della “prosperità condivisa”, presentata dallo stesso Xi Jinping nel mese di agosto: le autorità cinesi hanno infatti capito da tempo che il punto di collisione tra il capitalismo liberista e il comunismo è proprio l’allargamento delle disuguaglianze sociali, che vanno pertanto combattute.
Il fenomeno, che si sta manifestando in tutto il mondo, è infatti in grado di alimentare numerosi processi negativi: aumento del livello di indebitamento, diminuzione dei consumi, esplosione del malcontento e dei conseguenti rischi di rivolte popolari. Si tratta di ciò che la Cina non può assolutamente permettersi, dovendo gestire la popolazione più numerosa la mondo, pena una crisi sociale in grado di mettere a repentaglio la stabilità politica cinese e, in ultima analisi, la sussistenza stessa del Paese.
Questo è il motivo per cui la “prosperità condivisa” tra i cittadini rappresenta un’assoluta priorità dell’agenda di Pechino, la cui politica economica risulta sempre più orientata verso i consumi interni, in modo da essere sempre meno dipendente dagli squilibri dei modelli economici occidentali. Si tratta di un’operazione semplice da realizzare? Nient’affatto. Al contrario, è un esperimento mai realizzato prima: far virare l’economia più grande del mondo, evitandone l’uscita di strada I rischi di deragliamento sono decisamente elevati, in primo luogo perché fino ad ora la crescita della Cina è stata legata all’andamento dei Paesi Occidentali, favorendo un modello di successo simile ad essi, con conseguenti squilibri. Il sistema cinese ha infatti un debito complessivo di circa il 300% del PIL, del quale la fetta più rilevante è rappresentata dal debito privato corporate e household. Il collasso in corso del gigante immobiliare Evergrande non è casuale, e rappresenta proprio il rovescio della medaglia della turbolenta crescita economica processata da Pechino nell’ultimo decennio.
L’establishment di Pechino sarà in grado di gestire il processo in atto, evitando il peggio?
Impossibile preventivarlo, ma una cosa è certa. Lo dobbiamo sperare, perché da tale esito dipendono non solo le sorti di Pechino, ma anche dell’economia globale e quindi, in ultima analisi di ciascuno di noi.