di Gabriele Pinosa – GO-SPA CONSULTING SRL
Il 26 settembre i cittadini tedeschi sono chiamati alle urne per le elezioni politiche, dal cui esito non dipenderanno solo le scelte di Berlino, bensì il futuro dell’Europa, in un sistema globale sempre più dominato dal disordine globale.
Il cambio alla cancelleria tedesca assume un peso ancora maggiore, vista l’uscita di scena di Angela Merkel, (nella foto insieme a Mario Draghi) dominatrice degli ultimi sedici anni in cui ha dato stabilità alla politica teutonica, lasciando un’impronta nella Storia. Superato l’epicentro pandemico anche grazie al significativo intervento di stimolo fiscale (400 miliardi euro di nuovo debito in due anni), avendo messo nel cassetto la politica economica iper-rigorista dello Schwarze Null (il pareggio di bilancio), le sfide che attendono la Germania sono epocali. Ad iniziare da quelle economiche. Sotto la superficie del robusto rimbalzo del PIL 2021 (+9.4% tendenziale, secondo la rilevazione del primo semestre) si nascondono numerosi problemi. In primo luogo il modello tedesco, basato sul mercantilismo (forte surplus della bilancia commerciale) è messo in discussione sia dalla pandemia che dalla crescente pressione competitiva dell’industria tecnologica cinese.
Riguardo al primo aspetto, le catene di fornitura globali sono alle corde, palesando costi di trasporto crescenti e difficoltà di approvvigionamenti di materiali, tali da comportare chiusure di interi impianti produttivi. Il settore più colpito è quello automobilistico, a causa della carenza strutturale di microchip, una delle componenti più rilevanti delle quattro ruote, visto il peso crescente della componente elettronica. Nel corrente mese Volkswagen taglierà la produzione dell’impianto di Wolfsburg, il principale del gruppo tedesco. Il gigante dell’autoveicolo ha già interrotto la produzione del suo modello più economico della ID.3, una delle scommesse elettriche della casa automobilistica, proprio a causa di una carenza di microchip. La rilevanza dell’accaduto si misura con i numeri da capogiro del settore automotive tedesco: nel 2018 i dipendenti erano 834.000 per un fatturato complessivo di 424 miliardi euro, di cui quasi l’80% destinato all’export. In merito alla Cina, mentre nei decenni passati il Dragone era strettamente dipendente dalla tecnologia tedesca, ora ha intenzione di dimostrare di essere in grado di camminare sulle proprie gambe.
Un ulteriore livello di sfide riguarda il rapporto della Germania con l’Europa, stante il suo indiscusso ruolo di leadership nel Vecchio Continente. Archiviata Brexit, non senza problemi, Berlino teme una frammentazione ulteriore dell’Unione Europea, soggetto economico di massima importanza per gli interessi tedeschi, sia per la sua catena di fornitura (rivolta verso est) che per i mercati di sbocco. Anche in questo campo le difficoltà risultano crescenti. A fronte del grande passo in avanti messo in atto con l’approvazione del Next Generation EU, il primo progetto europeo finanziato con un debito comune, emergono crescenti visioni opportunistiche di un’Europa che risulta incompiuta perché finora incapace di procedere oltre le mere regole di convergenza imposte dall’adozione di una moneta unica. I detonatori da disinnescare risultano numerosi, ma i più rilevanti sono le impostazioni di nuove regole economiche post pandemia (appurato che il Patto di Stabilità e Crescita debba rimanere in soffitta) e la gestione dei flussi migratori.
I produttori di auto di Pechino infatti non solo si stanno facendo valere nello sviluppo della mobilità elettrica, ma ambiscono ad essere leader nei più importanti settori tecnologici dell’auto connessa e a guida semi-autonoma. Il clima di minore fiducia delle imprese tedesche è stato fotografato dall’indice IFO in agosto, sceso a 99.4 punti (rispetto ai 100.7 di luglio): si tratta della seconda diminuzione consecutiva, dopo il picco fatto registrare a giugno. E’ evidente che nell’era post pandemica, l’economia tedesca è attesa alla sfida di un maggior bilanciamento della crescita verso l’interno, con la ripresa strutturale degli investimenti fissi e dei consumi. Impresa il cui esito appare tutt’altro che scontato per un Paese che vanta il record europeo (tutt’altro che positivo!) dei depositi liquidi sui conti correnti (circa 3.000 miliardi euro) e che si confronta con un’inflazione crescente (ultima rilevazione +3.9% a luglio), nemico temuto dai cittadini tedeschi a causa delle ferite inflitte dalla tragedia dell’iperinflazione ai tempi della Repubblica di Weimar.
Entrambi i temi toccano infatti i nervi scoperti della costruzione di una casa comune incompleta, sia da un punto di vista fiscale che di gestione della politica interna ed estera (vedi la definizione di un esercito europeo per la difesa delle frontiere esterne). Il ruolo di Berlino in questo campo sarà cruciale, perché in grado di orientare le scelte più delicate, comportando in ultima analisi il futuro stesso dell’Unione Europea. Ad ultimo, certo non per importanza, il ruolo tedesco tra i due Big globali, Stati Uniti e Cina. Lo scontro in essere tra Washington e Pechino, tutt’altro che passeggero, comporterà cambiamenti destinati a lasciare un segno profondo nel prossimo decennio. Che posizione terrà Berlino? E con lei, Bruxelles? Il pragmatismo economico, perfettamente incarnato da Merkel, che ha funzionato quasi perfettamente nell’ultimo decennio, mostra già i suoi limiti, imponendo delle scelte di campo, certamente dolorose, anche all’Europa. La responsabilità di esse ricadrà per lo più su Berlino, il cui obbiettivo principale non dovrebbe essere quello di “germanizzare l’Europa, bensì di europizzare la Germania”, mettendo fine ad un’era durata fin troppo a lungo, in cui l’Europa è stata un gigante economico e un nano geopolitico globale.