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LODOVICO POGLIAGHI (1857-1950) E LE SUE ANTICHE CREATURE

Commento musicale G. Martucci, Notturno (dir. Arturo Toscanini, 1938)

Casa Museo Lodovico Pogliaghi in cima al Sacro Monte di Varese, patrimonio dell’UNESCO.

La dolcezza del tramonto lombardo fa quasi dimenticare il freddo che scende su questi ariosi contrafforti della Controriforma.

Ludovico Pogliaghi, fotocomposizione

Doveva finire qui lo scultore della porta maggiore del Duomo di Milano, concepita durante le aperture di Leone XIII e collocata in piena chiusura antimodernista sotto Pio X. Nella sua giovinezza, lontano ricordo, i primi importanti lavori portati a compimento proprio nel Comasco. In qualità di pittore e nel segno della Vergine per la chiesa parrocchiale di Solzago (1878) e per quella di San Donnino a Como (1885). Sulle orme dell’amato Benvenuto Cellini  il crocefisso e i candelabri per il Duomo del capoluogo (1886).

La villa, cioè il museo (cosa che era già in vita l’artista), è un coacervo di stili che riassumono il lato ombroso della Belle Époque.

Qui abitava un sognatore raccolto in contemplazione sincretica, ma ordinata. Una tradizione figurativa sentita ancora come viva quando già morta e sepolta. E riportata in vita con quella specie di spiritismo scientifico tipico dell’epoca.

Ludovico Pogliaghi, foto d’epoca

Teurgia di bronzo la porta del Duomo, di cui resta la monumentale anima di gesso nella parete di fondo del grande salone-studio.

Prima: una finestra di alabastro. Perché qui, tranne qualche apertura su panorami struggenti, lo sguardo è introverso: il passato ha fatto sua questa casa, che non era né sarà mai contemporanea.

Sarcofagi egizi, vasi cinesi, greci, statue romane, frammenti, suture di un sogno.

Due tele del Magnasco da intravedere alla luce tremante delle candele, alcuni caravaggeschi. E tappeti, tappeti enormi, come puzzle intessuti del Grande Gioco euroasiatico.

Una testa di Dioniso e una di Mercurio reinnestate su copie romane acefale di originali greci.

Tutto l’insieme è di un’armonia commovente: la spinta al grandioso, esausta, si raccoglie in un intimo definitivo silenzio.

“Illuminato, immemore e fiorito come un quieto camposanto. Il tempo non s’era limitato a disfare antiche creature: vi aveva reso possibili, vi aveva creato raggruppamenti nuovi.” (Marcel Proust, Il tempo ritrovato).

Tocca uscire perché la visita (guidata bene) è finita e io invece vorrei restare qui la notte.

Sono tornato nella dimensione parallela del mondo concreto, quella che si tocca, come la pietra, ma senza scultore.

Lodovico Pogliaghi, scomparso fantasma in vita in un altro mondo. Anno Santo 1950.

Luca Traini

Foto in B/N Archivio storico Debora Ferrari Riproduzione riservata (c)

Casa Museo Lodovico Pogliaghi http://www.casamuseopogliaghi.it/

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