di Domenico Cristiano -GO-SPA CONSULTING
Una delle tematiche più complesse che la pandemia ha generato nei confronti del tessuto economico è senza dubbio quella collegata allo Smart Working (“Lavoro Agile”).
Alcuni studi, risalenti solo a pochi anni (prima della prova dei fatti), descrivevano lo Smart Working come il futuro del mondo dell’impresa. L’osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano nel 2017 che presentava i risultati di una ricerca dimostrava come i lavoratori ad aver sperimentato e preferito il lavoro agile erano cresciuti in un solo anno del 60%. A dare una spinta decisiva verso la consapevolezza del reale impatto che lo Smart Working avrebbe avuto sull’economia ci ha però pensato la Covid-19, che come sappiamo ha costretto – solo in Italia – ben 4 milioni di lavoratori ad un repentino e radicale mutamento dell’erogazione della prestazione lavorativa. I dati, derivanti dal Rapporto sul mercato del lavoro 2020 di Istat, Ministero Lavoro, Inps, Inail e Anpal non dicono però cosa si nasconde dietro ai numeri.
Diverse sono infatti le letture per questo fenomeno: esse evidenziano differenti aspetti e sfaccettature che questa epocale trasformazione ha rappresentato e dell’effetto domino verificatosi su altri ambiti. Se da un lato per il lavoratore c’è stato un evidente risparmio di tempo e denaro sul tragitto casa – ufficio, stimato in media 1 ora e 30 minuti in Italia, c’è da considerare la ricaduta economica devastante che questo ha avuto sul sistema dei trasporti, sia pubblici che privati. Anav, l’Associazione delle aziende di trasporto pubblico locale aderente a Confindustria, ha stimato che la riduzione media di passeggeri nel periodo gennaio-agosto 2020, rispetto allo stesso periodo del 2019, è stata pari a circa due miliardi di unità (il 60% circa!). Un impatto che, sui ricavi delle aziende del settore, si traduce in perdite da mancati incassi da biglietti per un miliardo e 700mila euro in tutto il 2020. Un altro punto interessante, forse poco menzionato nel dibattito inerente allo Smart Working, riguarda le mense ed i servizi per gli uffici. Se qui è facile stimare un effettivo risparmio per l’azienda sui servizi e le agevolazioni da disporre ai dipendenti, è bene però non dimenticare che esiste una fetta di mercato – del valore di 4 miliardi euro – che si occupa esclusivamente di questo e che nel 2020 ha visto dimezzare il proprio fatturato.
Questo ovviamente senza considerare le problematiche relative alla sfera soggettiva del lavoratore e del vuoto normativo relativo agli straordinari, permessi, valutazione e sicurezza sul luogo di lavoro, lontano dalla supervisione, dal controllo, e forse anche in parte della responsabilità del datore di lavoro. Insomma: un modello che è ben lontano dal modello Ottocentesco su cui sono state forgiate le economie industriali e al quale le strutture aziendali si sono conformate. Non c’è da meravigliarsi quindi se a pagare i costi più alti di questa brusca transizione siano state proprio le madri lavoratrici, già poco integrate nel modello pre-esistente e che hanno trovato ancor meno certezze in questa nuova impostazione organizzativa del lavoro. Se a questo aggiungiamo poi la crescita esponenziale della depressione correlata alla crescita dello Smart Working, un tasso che è cresciuto in America di ben tre volte rispetto all’anno precedente (secondo i ricercatori della Boston University), potremo comprendere chiaramente che non siamo affatto di fronte ad un modello alternativo dell’organizzazione del lavoro. Un’indagine condotta da LinkedIn, durante il lock-down, offre un quadro preoccupante del benessere psicologico dello Smart Working dettato dall’epidemia. I dati che emergono dalla ricerca che ha coinvolto oltre 2.000 lavoratori italiani con diverse mansioni evidenzia alcuni elementi su cui riflettere: il 46% dei lavoratori italiani si sente più ansioso o stressato perché lavora da casa; il 48% ha lavorato più ore; il 18% ha riscontrato un impatto negativo sulla propria salute mentale ed il 16% teme che la propria azienda possa licenziarlo al termine del lock-down. Avendo sempre lo strumento principale a disposizione, il proprio computer connesso ad internet, e trovandosi sempre nello stesso ambiente che funge da casa e da ufficio si finisce per non smettere mai davvero di lavorare se non per andare a dormire. Questo può portare inevitabilmente anche a sentire un senso di isolamento amplificato soprattutto dalle condizioni in cui la pandemia ci ha costretto. Stare a casa, lavorare da casa, non vedere persone per troppo tempo, non avere scambi se non tramite un computer amplifica questo senso di isolamento con conseguenze negative per equilibrio e salute della persona.
La mancanza di rete sociale, di rapporto e interazione umana portano sicuramente il lavoratore a sentirsi solo proprio per il venir meno degli ammortizzatori emotivi che invece l’ambiente dell’ufficio gli offriva. Si pensi solo al coffe break: un momento di pausa in cui si costruiscono rapporti tra colleghi, si scambiano opinioni, ci si confronta come è giusto che sia tra esseri umani. In questo quadro a tratti può venir meno il senso del lavoro stesso o del progetto che si sta portando avanti. Perdere la bussola, non avere i colleghi accanto, non sapere con chi confrontarsi se non a distanza può portare chi lavora in questo modo a perdere proprio il senso di ciò che sta facendo. La realtà organizzativa del lavoro post pandemica non potrà pertanto trascurare tutti questi impatti, limitandosi a celebrare le qualità dello Smart Working. Usciti dall’incubo Covid, è ragionevole attendersi un riequilibrio del processo, che tenda a salvaguardare la rilevanza del rapporto umano e sociale nell’ambito lavorativo.